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Come noto, le ere della preistoria vengono classificate associando a lunghi periodi delle prime civiltà umane i nomi di materiali come la pietra, il bronzo o il ferro. Questo a marcare l'importanza che i materiali hanno avuto nello sviluppo delle prime e fondamentali tecnologie umane. A partire dal 300 a.C. questa convenzione di indicare le ere dell'umanità usando nomi di materiali viene meno, e si parla più genericamente di età antica, medioevo, età moderna e contemporanea. Nei nostri giorni l'era che stiamo vivendo è stata più volte identificata come era nucleare, poi era spaziale e oggi come era di Internet. In ogni caso i materiali sembrano spariti. Apparentemente essi sembrano aver perso quella centralità che avevano per i nostri progenitori. Questo non è assolutamente vero, anzi: è vero il contrario. La modernità, e in misura anche più evidente gli ultimi due secoli della civiltà umana, è stata la culla di un incredibile sviluppo di nuovi materiali quali gli acciai, le plastiche, i semiconduttori e, negli ultimi anni, i materiali nanostrutturati. Quello che cambia radicalmente nel passaggio dalle ere preistoriche alla modernità è il rapporto tra materiali e tecnologie. Le tecnologie della protostoria (rudimentali ma non certo meno essenziali di quelle odierne alla sopravvivenza e al benessere dell'uomo primitivo) risultavano completamente delimitate e determinate dalle caratteristiche di specifici materiali. I materiali giocavano quindi un ruolo centrale ma negativo, nel senso che essi condizionavano le tecnologie possibili. Nell’età della pietra le tecnologie realizzabili utilizzando legno o pietra venivano praticate, quelle per le quali questi materiali erano insufficienti non venivano semplicemente sviluppate. Questo paradigma si conserva sostanzialmente intatto fino alla fine del Settecento, quando l'ingresso sulla scena dei “nuovi materiali” (di allora) – principalmente gli acciai − consentì la realizzazione di manufatti (macchinari, edifici, infrastrutture) prima semplicemente inimmaginabili. La presa di coscienza della centralità dei materiali nella definizione delle tecnologie possibili ha costituito l'atto di nascita della moderna scienza dei materiali. La scienza dei materiali nasce infatti dall’inversione del rapporto tra materiale e tecnologia. Fino a poche centinaia di anni fa erano i materiali e la loro più o meno casuale disponibilità a determinare la possibilità di una tecnologia. Con la fine del Settecento sono viceversa le tecnologie, cioè i bisogni produttivi dell'industria unitamente alla capacità di tecnologi e scienziati di immaginare nuovi strumenti, manufatti o prodotti, a guidare la ricerca e la messa a punto di sostanze solide caratterizzate dalle proprietà fisiche e chimiche necessarie allo scopo. Questa inversione di paradigma ha costituito e costituisce uno dei fattori trainanti dell'enorme sviluppo di nuove tecnologie e prodotti cui abbiamo assistito nel corso degli ultimi cento anni.

A partire dai materiali strutturali la scienza dei materiali ha affiancato e consentito lo sviluppo delle tecnologie moderne, guidando il passaggio dalle prime tecnologie elettriche alla microelettronica – ma promuovendo anche tecnologie per la produzione di energia elettrica o per la diagnostica medica. Con gli ultimi anni del XX secolo la nascita delle nanotecnologie ha dato un ulteriore impulso allo sviluppo di intere nuove classi di materiali, che sicuramente impatteranno in maniera fondamentale sulle tecnologie del nuovo secolo.

 

Il primo tipo di impiego dei materiali è stato di carattere strutturale. Con questo termine ci si riferisce all'utilizzo di un materiale per applicazioni nelle quali sono rilevanti le sue caratteristiche meccaniche. A titolo di esempio, rientrano tra gli impieghi strutturali l'utilizzo dei materiali per le costruzioni, per la realizzazione di manufatti quali ad esempio ruote, attrezzi di lavoro, armi, recipienti, eccetera. In tutti questi casi ciò che si chiede un materiale è tipicamente di essere lavorabile, cioè modificabile con sforzo meccanico ragionevole; e, una volta lavorato nella maniera voluta, di essere in grado di sopportare adeguate sollecitazioni meccaniche. Le proprietà meccaniche tuttavia non esauriscono le caratteristiche richieste ad un buon materiale strutturale. Infatti un buon materiale strutturale deve essere in grado di reggere le condizioni ambientali in cui esso viene impiegato: ad esempio esso deve essere in grado di sopportare temperature elevate o shock termici; e, d'altra parte, deve anche poter reggere all'interazione chimica con l'ambiente circostante. Ulteriori richieste possono derivare da specifici contesti di impiego. Per esempio nella scelta dei materiali impiegati nella realizzazione della struttura esterna dei satelliti, oltre alle ordinarie caratteristiche plastiche e ad una notevole capacità di resistenza agli shock termici (le differenze di temperatura tra la superficie di un satellite artificiale esposta al sole e in ombra è dell'ordine di 600° C!), deve anche essere in grado di non alterare le proprie caratteristiche in presenza di radiazioni ionizzanti di elevata intensità, caratteristiche dello spazio extraterrestre.

Storicamente i primi metalli e le prime leghe utilizzate dall’umanità furono il rame ed il bronzo, entrambi caratterizzati da una elevata malleabilità ed una facile lavorabilità a caldo.  Né rame né bronzo presentano tuttavia caratteristiche meccaniche e di stabilità chimica eccezionali, e quindi l'appropriazione delle tecnologie del ferro (XII secolo a.C.) rappresentò un risultato essenziale nella abilitazione di nuove tecnologie e nella stabilizzazione delle tecnologie già implementate nell'epoca del bronzo.

Ferro, rame, bronzo e poche altre leghe – unitamente a legno, pietra – costituirono per millenni gli unici materiali strutturali disponibili. Occorre fare un salto di alcuni millenni dall’era del ferro perché il rapporto tra sviluppo della tecnologia e sviluppo di materiali si ribalti, determinando la nascita e lo sviluppo di nuovi materiali strutturali: acciai, alluminio e sue leghe e, in epoca successiva, ceramici strutturali e polimeri.

Le applicazioni strutturali non sono le sole per le quali occorrono materiali nuovi. I materiali funzionali sono almeno altrettanto importanti, e su di essi si è spesa molta della creatività degli scienziati dei materiali negli ultimi secoli.

Come noto dai corsi di fisica, un semiconduttore è un materiale caratterizzato da un gap di energie non accessibili agli elettroni, esattamente come un isolante. La differenza rispetto agli isolanti è che tale gap di energie proibite è più piccolo e che esistono specie chimiche (dette droganti) che sono in grado di introdurre livelli elettronici all'interno di tale gap. I droganti possono quindi accrescere significativamente la densità di elettroni (o di lacune) mobili nel materiale − che quindi si comporta macroscopicamente come un cattivo isolante. L'esistenza di cristalli con simili strutture elettroniche era ben nota fin dai primi anni del XX secolo -- senza che fosse tuttavia evidente un loro impiego pratico. Fu solo nel 1947 che, principalmente ad opera di tre scienziati, Brattain, Bardeen e Shockley, operanti presso i laboratori della Bell a Murray Hill (NJ), i semiconduttori trovarono un ambito di applicazione che li rese centrali nella moderna tecnologia microelettronica. Nell’elettrotecnica della prima metà del XX secolo si era manifestata l’esigenza di dispositivi in grado di modulare un segnale elettrico. Nel campo delle telecomunicazioni, ad esempio, le radio a galena di Marconi consentivano la trasmissione di segnali (voci o altro) a lunga distanza. Tuttavia il segnale captato è generalmente assai debole, e si poneva l’esigenza di amplificarlo – cioè di moltiplicare opportunamente la corrente associata al segnale di modo da renderlo più facilmente udibile. In elettrotecnica l’amplificazione viene ottenuta impiegando le cosiddette valvole termoioniche. Le valvole termoioniche hanno così trasformato la radio di Marconi da strumento unicamente tecnico (per le comunicazioni tra le navi e tra navi e terraferma) in oggetto di svago e di informazione per il grande pubblico; e sono state un elemento chiave nella realizzazione delle prime trasmissioni televisive o, su tutt’altro versante, dei primi automatismi elettromeccanici (relé, teleruttori, macchine calcolatrici, etc.).

Il problema di fondo delle valvole termoioniche consisteva nelle loro dimensioni, tipicamente dell’ordine di una decina di centimetri. Brattain, Bardeen e Shockley scoprirono che lo stesso tipo di modulazione−amplificazione di segnale poteva essere realizzato impiegando un semiconduttore in cui venissero realizzate tre zone a drogaggio differente. Il segnale applicato ad uno dei contatti (detto base) modula la corrente che scorre tra gli altri due (rispettivamente emettitore e collettore), comportandosi quindi esattamente come una valvola termoionica. Visto diversamente, il dispositivo è una sorta di resistenza variabile in cui il valore della resistenza è determinato da un voltaggio esterno. Fu unendo quindi i termini transconductance e resistor che gli scienziati della Bell giunsero a battezzare il dispositivo con il nome di transistor. L’invenzione del transistor non solo rivoluzionò il mondo delle comunicazioni ma aprì la strada ad una delle più importanti rivoluzioni tecnologiche dell’età moderna, aprendo le porte alla cosiddetta elettronica di consumo che oggi segna la vita di tutti noi.

Le applicazioni della microelettronica non sono il solo contributo della scienza dei materiali alla nostra qualità della vita nel XX secolo. I materiali per l’energetica sono un altro significativo esempio delle potenzialità dei nuovi materiali.

Mentre l'impiego dei materiali per scopi strutturali risale agli albori della storia umana, l'idea che un materiale possa assolvere a compiti diversi e più sofisticati del semplice resistere a sforzi meccanici è relativamente più recente. In linea generale, con l'espressione impiego funzionale si intende in modo assai ampio l'utilizzo di un materiale per qualsiasi applicazione diversa da quella strutturale − dal trasporto di energia elettrica con cavi di rame alla trasmissione di dati con fibre ottiche al trattamento digitale dell'informazione impiegando sofisticati dispositivi elettronici basati primariamente su materiali semiconduttori, dalla produzione di energia elettrica usando celle fotovoltaiche alla realizzazione di dispostivi capaci di monitorare la presenza e la concentrazione di specie chimiche. Non è quindi strano che la classe dei materiali funzionali abbia subito un importante impulso solo in tempi relativamente recenti, a ridosso della spettacolare evoluzione delle tecnologie nel corso della seconda rivoluzione industriale.

L'esigenza di generare e trasportare energia elettrica fu un motore straordinario nello studio delle proprietà elettriche dei materiali − e motivò poi un approfondimento nella conoscenza delle loro caratteristiche elettroniche che generò un ritorno formidabile anche in ambiti affatto diversi dall'elettrotecnica.

Con la scoperta e la razionalizzazione dei primi fenomeni elettrici fu rapidamente chiaro ai fisici e agli ingegneri della seconda metà dell'Ottocento l'importanza di disporre di materiali capaci sia di trasportare correnti elettriche sia di impedire efficacemente il movimento di cariche elettriche. Per il primo scopo la classe di materiali di elezione risultò essere ovviamente quella dei metalli. Una rapida scorsa ad una tabella di resistività elettriche mostra come il rame (e l'argento) presentino caratteristiche ottimali allo scopo − e non casualmente il rame è il metallo oggi correntemente impiegato nella gran parte dei sistemi di trasporto di energia elettrica, almeno quando siano in gioco potenze rilevanti. Sul versante opposto, buoni isolanti elettrici per applicazioni elettrotecniche di potenza furono inizialmente individuati nella classe dei ceramici e, più in generale, degli ossidi. Porcellane, miche ed allumina trovarono e trovano ancora oggi impiego per l'isolamento di parti elettriche in tensione.

Nel complesso lo sviluppo dell'elettrotecnica stimolò e portò rapidamente a maturazione quell’approccio ai materiali che oggi viene adottato anche in altri settori della tecnologia. Da questo punto di vista (ma solo da questo punto di vista) l'elettrotecnica e la microelettronica stanno su una assoluta linea di continuità con l'elettronica moderna, che semplicemente estremizza la complessità delle richieste e la velocità con cui nuovi materiali passano dalla loro progettazione concettuale (bisogno di un materiale con certe proprietà) alla sua effettiva disponibilità (individuazione del materiale e del processo di produzione necessario per realizzarlo). Ovviamente da ogni altro punto di vista la rivoluzione microelettronica segna una discontinuità profonda nelle tecnologie moderne, non fosse altro che perché essa si centra su una nuova classe di materiali funzionali: i semiconduttori.

Lo sviluppo della scienza dei materiali tra XX e XXI secolo ha raccolto l’antica sfida di creare materiali nuovi tali da consentire tecnologie nuove in grado di migliorare la qualità della vita umana. Tra queste sfide, quella energetica è senz’altro tra le più importanti. Per molti millenni i materiali sono serviti a produrre energia unicamente per via chimica. Il carbone bruciato nelle caldaie dei motori a combustione esterna ha consentito le prime forme di locomozione non basate sull'impiego dell'energia animale − ed è stato all'origine della prima rivoluzione industriale. Ma già verso la fine del Settecento, con i primi studi di elettrologia, Alessandro Volta osservò non solo che spugne imbevute di opportune soluzioni potevano consentire l'accumulo di energia (pila elettrochimica di Volta − 1799) ma anche che coppie di metalli con giunzioni tenute a temperature differenti consentivano di generare piccole quantità di potenza elettrica (effetto termoelettrico, osservato da Volta nel 1794). E’ di qualche decennio più tardi (1834) la scoperta dell'effetto fotovoltaico, cioè della possibilità di generare correnti elettriche illuminando una giunzione tra due materiali differenti. Nessuno di questi fenomeni fisici trovò tuttavia applicazione pratica per molti decenni dopo la loro scoperta. La prima pila commerciale raggiunse il mercato solo nel 1896 mentre le prime applicazioni dell'effetto fotoelettrico nelle cellule fotoelettriche risale al 1920. Altrettanto dicasi per il fotovoltaico, che trovò inizialmente impiego solo nelle tecnologie spaziali e che fece ingresso nelle tecnologie civili nel 1954, diventando la più importante e diffusa fonte rinnovabile di energia solo in anni relativamente recenti. Ancora una volta, quello che fece la differenza tra un fenomeno naturale e lo sviluppo di una tecnologia su di esso fondato fu la disponibilità di materiali in grado di rendere lo sfruttamento pratico di un fenomeno qualcosa di economicamente conveniente ed ambientalmente sostenibile.

Sul versante della generazione elettrica per effetto fotovoltaico il silicio è stata la prima scelta fatta nel campo del fotovoltaico, e assolve ancora oggi un ruolo primario in questo ambito essenzialmente in ragione della capacità tecnologica di ottenere silicio virtualmente privo di difetti in maniera affidabile. Pannelli fotovoltaici di silicio fornirono energia ai laboratori spaziali Skylab (1973−1979) e alimentano centinaia di satelliti artificiali in orbita attorno alla terra. Le efficienze di conversione di quello che viene indicato spesso come fotovoltaico di prima generazione si aggirano intorno al 15 %.

Nello sviluppo del fotovoltaico terrestre l’esigenza di ridurre i costi di produzione dei pannelli ha portato in tempi più recenti al cosiddetto  fotovoltaico di seconda generazione che individuò nel silicio policristallino massivo prima e negli strati sottili (film) di silicio policristallino in tempi successivi il proprio materiale di riferimento. Al fotovoltaico di seconda generazione seguirono metodologie in grado di convertire in potenza elettrica la frazione di radiazione elettromagnetica che non può essere raccolta dal silicio accoppiando ad esso altri materiali quali tellururo di cadmio e seleniuri misti di rame, indio e gallio (fotovoltaico di terza generazione). Tutto questo, congiuntamente alla riduzione di costo del materiale e a politiche di incentivazione alla generazione elettrica diffusa con fonti rinnovabili, ha permesso l'attuale diffusione del fotoelettrico in Italia, con numeri che nel 2012 hanno raggiunto i 17 GW di potenza immessa in rete.

I semiconduttori inorganici non sono tuttavia gli unici materiali utilizzabile nel fotovoltaico.Nel 1991 il chimico svizzero Graetzel inventò celle fotovoltaiche, oggi dette appunto celle di Graetzel, che impiegano coloranti organici all’interno di celle fotoelettrochimiche per convertire la radiazione solare in energia elettrica.

Complessivamente, è impressionante il progresso in termini di efficienza di conversione che l’introduzione di nuovi materiali e nuove tecnologie ha comportato nell’arco di meno di cinquanta anni, passato dal 13 % delle prime celle Mobil del 1976 al 44 % delle migliori celle di terza generazione realizzate nel 2012 – una evoluzione che testimonia l’efficacia del rapporto tra richieste delle tecnologie fisiche e risposta che la scienza dei materiali è in grado di generare in tempi ormai strettissimi.

Se il fotovoltaico ha contribuito alla riduzione dell’inquinamento ambientale, i nuovi materiali hanno anche contribuito alla salute umana intervenendo direttamente nel settore della diagnostica medica.

I primi utilizzi dei materiali ceramici sono rinvenibili agli albori della storia umana. Vasellami, tazze, otri venivano realizzati sin dall'epoca preromanica impiegando impasti di argilla e altri ossidi che venivano successivamente sottoposti ad un processo di ricottura. Tra i ceramici di uso moderno il più comune è senz’altro l’allumina. Mentre i cosiddetti “verdi di allumina” sono impasti umidi di ossido e idrossidi di alluminio che possono essere posti facilmente in forma, quando il “verde” viene posto in forni e portato a temperature comprese tra i 1400 e i 1700 °C il materiale che si ottiene è di straordinaria durezza e sostanzialmente non lavorabile per via meccanica.

Dal punto di vista delle proprietà meccaniche, i ceramici non sono certamente in grado di competere con i metalli né in termini di resistenza meccanica né in termini di resilienza. Generalmente, i ceramici sono materiali decisamente fragili e non in grado di reggere le sollecitazioni meccaniche facilmente sopportate da un acciaio. Per converso, le fasi ceramiche presentano caratteristiche chimiche alquanto straordinarie. Essi sono sostanzialmente inerti e quindi in grado di sopportare l'interazione anche con ambienti chimici estremamente aggressivi. Sono quindi del tutto insensibili ai problemi di corrosione che tipicamente caratterizzano i metalli e, corrispondentemente, garantiscono la possibilità di realizzare contenitori inerti, quindi idonei a contenere sostanze di vario genere senza contaminarle. Anche sul piano della durezza i ceramici superano ampiamente metalli e leghe. Infine, non sorprenderà che i ceramici trovino naturale impiego ovunque sia richiesta la capacità di reggere temperature molto elevate. Questo li mette in grado di coprire applicazioni specifiche. In particolare, risulta sempre più diffusa la ricopertura dei metalli con sottili strati di ceramici. La combinazione tra la resistenza meccanica dei metalli e l’inerzia chimica e termica dei ceramici consente di sviluppare manufatti e strumenti idonei ad operare nelle condizioni più estreme.

Mentre metalli e ceramici sono stati utilizzati sin dai tempi della protostoria, i materiali polimerici sono una acquisizione più recente. Tuttavia va osservato che i polimeri naturali sono descritti già in epoca ellenistica. Caucciù, ambra, alcune gomme naturali trovavano limitato impiego sia nella decorazione di abiti e monili sia nella realizzazione di alcuni semplici oggetti di uso domestico. Occorre tuttavia scivolare in avanti di molti secoli per incontrare i primi polimeri artificiali. Tra questi progenitori dei polimeri moderni può essere ricordata la bachelite, una resina fenolica impiegata all'inizio del XX secolo essenzialmente per realizzare isolamenti elettrici in dispositivi elettromeccanici.

La grande stagione dei materiali polimerici prende le sue mosse dalla scoperta da parte del chimico italiano Giulio Natta e del chimico tedesco Karl Ziegler della possibilità di controllare il processo di polimerizzazione in modo da realizzare polimeri facilmente stampabili e con proprietà plastiche non osservate in altri tipi di materiali.

I polimeri non hanno né la resistenza meccanica dei metalli né l'inerzia chimica o termica dei ceramici. Per converso, essi sono caratterizzati da una lavorabilità estrema e semplice. Diversamente da metalli e ceramici, con i polimeri risulta non solo possibile realizzare lastre, tubi o altre forme elementari semplicemente provvedendo alla polimerizzazione a bassa temperatura in stampi ma è ulteriormente possibile impartire forme complesse al polimero ad esempio per semplice pressatura (stampaggio a caldo). Questo ha un enorme vantaggio sul piano dei costi di produzione, dato che le alte temperature richieste da ceramici e metalli implicano costi energetici estremamente significativi. Di conseguenza, laddove non siano effettivamente necessarie le caratteristiche di resistenza meccanica, chimica o termica garantite da metalli o ceramici, l'uso dei polimeri ha consentito notevoli abbattimenti dei costi di produzione.

Non si deve tuttavia concludere che l'unico vantaggio dei polimeri sia da connettere ai loro costi di produzione ridotti. Oggi sono disponibili ed utilizzati materiali polimerici in grado di reggere sia temperature relativamente elevate sia ambienti chimici relativamente aggressivi. La possibilità di modificare le caratteristiche meccaniche, chimiche e termiche dei polimeri giocando sulla natura chimica dei precursori e anche sull'impiego di monomeri differenti ha inoltre abilitato la realizzazione di polimeri per impieghi sofisticati. In più, esattamente come nel caso di ceramici, le moderne tecnologie dei materiali hanno saputo accoppiare fra di loro polimeri e metalli di modo da ottenere materiali complessivamente in grado di unire la resistenza allo sforzo e alla trazione dei metalli con la varietà di caratteristiche chimiche tipiche dei polimeri.

Le applicazioni strutturali non sono le sole per le quali occorrono materiali nuovi. I materiali funzionali sono almeno altrettanto importanti, e su di essi si è spesa molta della creatività degli scienziati dei materiali negli ultimi secoli.

Intorno alla fine degli anni ’70 la corsa alla miniaturizzazione in microelettronica si imbatté nella inattesa scoperta che la materia, su scala nanometrica, manifesta comportamenti inattesi quanto affascinanti. Riducendo la questione ai suoi minimi termini, su scala nanometrica le proprietà fisiche e chimiche di un materiale risultano dipendere dalle sue dimensioni. La scoperta degli effetti di taglia su scala nanometrica ha determinato una serie impressionante di applicazioni tecnologiche e di ricerche di base che dominano largamente l’attuale sviluppo della scienza dei materiali – e anche ampi settori della chimica, dalla catalisi alla biochimica. Alcuni di questi hanno già raggiunto applicazione in prodotti di largo consumo.

Negli pneumatici la reticolazione del polimero (o della miscela di polimeri − mescola) del battistrada è assistita dalla presenza di piccole quantità di particelle di ossido che garantiscono una maggiore resistenza all’abrasione e una più elevata tenuta di strada. La sostituzione di queste particelle con nanoparticelle di ossido ha consentito un significativo miglioramento delle prestazioni degli pneumatici, specialmente alle basse temperature dove si è potuto ridurre in questo modo la temperatura di vetrificazione delle mescole.

Nanoparticelle di biossido di titanio sono ampiamente impiegate nei materiali cementizi e nei bitumi per conferire a questi materiali (ovviamente strutturali, secondo la classificazione introdotta) capacità funzionali. Il biossido di titanio è un noto materiale fotocatalitico, in grado di accelerare reazioni chimiche in presenza di luce. Tali capacità risultano estremamente amplificate su scala nanometrica e tali da consentire la degradazione dell’anidride solforosa in solfati. Disperdendo quindi nanoparticelle di biossido di titanio in materiali strutturali inerti (cementi, asfalto, biacche) è stato quindi possibile rendere tali materiali (e le superfici sui cui essi sono applicati: carreggiate stradali, muri, frontali di edifici) chimicamente attivi e capaci di promuovere l’abbattimento di un importante inquinante atmosferico urbano.

Nanopolveri di ossidi (ma anche di composti organici ben più complessi) trovano impiego nella cosmesi e in farmacologia, dove vengono utilizzati per controllare la cinetica di rilascio dei principi attivi. Con la stessa logica nanoparticelle di argento sono utilizzate in medicina per garantire una rapida ed efficace sterilizzazione di lesioni cutanee anche profonde.

Anche se l’impiego di nanoparticelle rappresenta ad oggi la frazione più importante di applicazioni mature delle nanotecnologie, già esiste qualche esempio di prodotti commerciali che impiegano oggetti nanometrici più complessi. I nanotubi di carbonio trovano già impiego negli schermi di alcuni telefoni cellulari. Gli schermi OLED (organic light−emitting diodes) utilizzano tradizionalmente la luminescenza di molecole organiche. La loro efficienza (intensità di radiazione emessa per unità di potenza elettrica consumata) può essere accresciuta sostituendo le molecole organiche con nanotubi di carbonio chimicamente modificati e direttamente agganciati sulla superficie di un vetro conduttore. E nanotubi di carbonio sono anche impiegati, questa volta come materiali strutturali, per accrescere la resistenza allo sforzo di fibre di vetro impiegate nel settore automobilistico.

Gli impressionanti sviluppi delle conoscenze in ambito biologico e medico che hanno segnato gli ultimi vent'anni hanno reso possibile lo sviluppo di materiali sia strutturali sia funzionali pensati per applicazioni specifiche in ambito biomedico. Quello dei biomateriali, intesi in senso lato, è probabilmente uno dei comparti della scienza dei materiali in cui si è assistito alle innovazioni concettuali più interessanti.

La situazione dei biomateriali alla fine degli anni Ottanta fotografa sostanzialmente un impiego di materiali a soli fini strutturali: leghe metalliche biocompatibili impiegate per protesi ossee o dentali, unitamente a materiali plastici utilizzati per le prime valvole cardiache artificiali. L'unico esempio di materiale funzionale effettivamente impiegato è nel primo biosensore per uso medico, utilizzato oggi comunemente nella determinazione del livello di glucosio nel sangue. Negli ultimi anni, viceversa, si è assistito ad una enorme sforzo di ricerca nel settore dei biomateriali funzionali, orientato principalmente verso lo sviluppo di tecniche di diagnostica che possano integrare (e in parte sostituire) le procedure di analisi biochimica di laboratorio che sono ancora oggi lo standard ospedaliero a livello mondiale. Il concetto di base è quello di sviluppare sistemi integrati miniaturizzati in grado di svolgere sia le eventuali operazioni di separazione dei fluidi sia l'analitica richiesta in modo automatico. Tali dispositivi, detti comunemente lab-on-chip, consentirebbero quindi di spostare dal laboratorio al letto del paziente (ed eventualmente al suo domicilio, per talune classi di patologie) buona parte della fase di diagnosi. Questo, al di là dei vantaggi in termini di costo assistenziale, permetterebbe di condurre analisi anche complesse con maggiore frequenza anche in assenza di operatori qualificati, consentendo una più efficace azione di prevenzione nei soggetti a rischio; e un monitoraggio più continuo e sistematico del decorso della malattia.

In un lab-on-chip una goccia del fluido organico che deve essere analizzato viene introdotta e suddivisa, indirizzata e spostata da una sezione del dispositivo che si fa carico della microfluidica. Il liquido raggiunge quindi su uno o più canali il sensore che misura la presenza e la concentrazione di una specifica specie (una molecola semplice come il glucosio o una molecola assai più complessa come un marker tumorale - ma è possibile anche contare batteri o virus). Il segnale del sensore viene quindi convertito in un segnale elettrico e trasmesso all'elettronica, che può eventualmente utilizzare tutte le informazioni ottenute dai sensori per identificare una condizione patologica. Le singole misure e/o il dato rielaborato viene quindi o mostrato su un display oppure trasmesso ad un centro di raccolta, al medico curante o all'ospedale responsabile della terapia per l'archiviazione o per sollecitare un intervento sul paziente. Tutto il dispositivo (canali microfluidici, sensori ed elettronica) sono realizzati su un singolo chip di silicio di dimensioni spesso inferiori al centimetro.

La possibilità di realizzare questi microlaboratori automatici è una misura di come sia possibile modificare opportunamente le proprietà superficiali di un unico materiale (il silicio) a seconda delle funzioni che tale superficie deve assolvere impiegando tecniche dette di autoassemblaggio molecolare. Nella microfluidica, ad esempio, è essenziale che le microgocce di fluido che deve essere spostato da una parte all'altra del chip non aderisca (non "bagni") la superficie. A questo fine la superficie di silicio può essere resa idrofoba legando chimicamente (autoassemblaggio) alla superficie molecole idrofobe, che formano un singolo strato di molecole ordinato dello spessore di qualche nanometro, più che sufficiente a repellere le molecole di acqua del fluido biologico. Analogamente, i sensori sono in grado di riconoscere le biomolecole, i virus o i batteri impiegando biomolecole o specie più complesse che vengono legate alla superficie di silicio e che sono in grado di interagire selettivamente con le specie obiettivo. Le possibilità offerte dall'autoassemblaggio molecolare unitamente alle sensibilità estreme offerte dalle nanotecnologie e che saranno discusse nella prossima sezione hanno consentito la realizzazione di sistemi in grado di rilevare patogeni con concentrazioni dell'ordine delle femtomoli per litro (circa 600 particelle/mm3).