
Trasformare l’energia solare in energia chimica: è il principio di funzionamento della fotocatalisi che ha lo scopo di trasformare molecole di basso valore aggiunto in prodotti di immediata utilità. Ma come favorire il processo di migrazione verso i centri di accumulo e conversione di energia rendendo più efficiente il processo? Grazie a uno studio computazionale di un gruppo di ricercatori del Dipartimento di Scienza dei Materiali dell’Università degli Studi di Milano – Bicocca, guidato dal Prof. Gianfranco Pacchioni è stato possibile dimostrare che sono la struttura atomica e la natura chimica dell’interfaccia in un materiale composito a giocare il ruolo fondamentale nel determinare questo processo, spiegando precedenti risultati teorici inconciliabili con quelli sperimentali.
I risultati della ricerca sono stati recentemente pubblicati su Advanced Functional Materials (Impact factor 16.837 - 2019 Journal Impact Factor, Journal Citation Reports (Clarivate Analytics, 2019)) con una comunicazione dal titolo "Nature and Role of Surface Junctions in BiOIO3 Photocatalysts” (doi:10.1002/adfm.202009472).
In questo studio, i membri del Quantum Chemistry Lab (QCLab) diretto dal Prof. Pacchioni hanno realizzato uno studio computazionale di interfacce costituite da un materiale fotocaliticamente attivo, il BiOIO3, dimostrando che la terminazione chimica delle superfici interfacciate ha un effetto primario sulla stabilità e sull’efficacia operativa dell’interfaccia, un fatto che sarebbe difficile inferire senza disporre di un modello dettagliato e solido della struttura interfacciale.
I sistemi compositi, cioè costituiti da almeno due materiali come quelli oggetto di questa ricerca, spesso mostrano delle prestazioni superiori rispetti ai lori componenti, perché nella zona di contatto tra i due è possibile incanalare le specie che trasportano l’energia verso i siti di conversione. La descrizione della zona di contatto, detta interfaccia, è però difficile, trattandosi di una zona interna strutturata su scala nanometrica. Esperimenti in silico (ovvero simulazioni al calcolatore) spesso possono aiutare nel predire la struttura atomica e la natura chimica dell’interfaccia, nonché aiutare nella progettazione di interfacce che siano in grado di separare efficientemente i portatori di carica.
Come può un materiale convertire l’energia solare in una seconda forma utilizzabile dall’uomo?
L’energia solare è la principale fonte rinnovabile – ci racconta Giovanni Di Liberto, ricercatore del Dipartimento di Scienza dei Materiali e membro del QCLab. – I fotoni (quanti di radiazione) della luce solare possono essere convertiti in diverse forme di energia (termica, elettrica, chimica), in presenza di un sistema in grado di catturarla; questo processo è alla base, ad esempio, della fotosintesi clorofilliana che avviene nelle piante. Uno dei campi più esplorati della scienza dei materiali è quello di realizzare dei dispositivi in grado di riprodurre questo comportamento. Il processo basilare che avviene in questo caso può essere diviso in tre passaggi fondamentali: i) cattura dei fotoni, ii) trasporto dell’energia assorbita per mezzo della separazione dei “portatori di carica”; iii) conversione dell’energia solare. Quando un materiale assorbe la radiazione gli elettroni ospitati negli orbitali occupati vengono eccitati e promossi in livelli energetici altrimenti inaccessibili. Contemporaneamente, l’eccitazione di elettroni comporta la generazione di specie aventi carica opposta, dette buche. Elettroni e buche sono specie altamente mobili in un reticolo cristallino e sono perciò detti portatori di carica, in quanto “possono trasportare” l’energia assorbita. Se si riesce a far migrare i portatori di carica verso accumulatori e convertitori di energia, l’energia che trasportano può essere convertita, ad esempio in energia elettrica (celle solari) o energia chimica (fotocatalisi) per la trasformazione di molecole di basso valore aggiunto in prodotti di immediata utilità. Tale processo, però, è minacciato da una reazione parassita detta ricombinazione, dove l’elettrone e la buca si annichiliscono reciprocamente senza che la loro energia possa essere in alcuna forma immagazzinata o utilizzata. E qui entrano in gioco le interfacce.
Qual è il meccanismo di funzionamento di una interfaccia in un materiale composito?
Quando due materiali creano un’interfaccia o giunzione, - spiega Sergio Tosoni, ricercatore del Dipartimento di Scienza dei Materiali e membro del QCLab - si apre un canale di collegamento tra i loro stati elettronici. Se i livelli elettronici all’interfaccia di un componente sono tali da stabilizzare gli elettroni, e quelli del secondo componente sono tali da stabilizzare le buche, allora la separazione di elettroni e buche in componenti diversi è termodinamicamente favorita. Questo abbassa la probabilità di ricombinazione, favorendo il processo di migrazione verso i centri di accumulo e conversione di energia. Progettando la natura delle interfacce, si può quindi promuovere la separazione in maniera efficace, ma anche modularne il verso, cioè determinare verso quali materiali migreranno gli elettroni e le buche.
Che contributo può dare la chimica computazionale in questo campo?
La descrizione di un’interfaccia è un tema complesso - illustra Giovanni Di Liberto - principalmente dovuto alla sua natura nanometrica, e spesso di difficile previsione. Moderne simulazioni di chimica computazionale consentono proprio di indagare fenomeni che avvengono in questa scala, fornendo risultati accurati in tempi paragonabili alla durata di un esperimento.
Inoltre, le simulazioni al computer consentono di investigare diverse interfacce, la loro struttura, stabilità e proprietà elettroniche, senza bisogno di realizzare in pratica i sistemi desiderati. Ad esempio, è possibile prevedere che la struttura più probabile all’interfaccia non sia quella che si potrebbe aspettare basandosi sulle proprietà dei materiali separati, e che proprio questo determini il comportamento del sistema composito.